Schizofrenia, focus Veneto. La salute mentale chiede più investimenti, recovery più precoce, riduzione dello stigma e interventi più specifici e appropriati

In Italia sono 245mila i malati di schizofrenia. Secondo i dati solo il 70% dei pazienti risulta incluso in un ciclo di cura; il 47% dei pazienti affetti ha dovuto lasciare il lavoro e il 34% ha dovuto abbandonare gli studi.

Aumentare le risorse economiche destinate alla tutela della salute mentale, favorire il reinserimento dei pazienti nel mondo sociale, ridurre il ricorso alla residenzialità, stimolare gli approcci per percorsi integrati, preferire l’esito clinico al “prezzo” delle cure. Sono questi i principali nodi da sciogliere quando si parla di salute mentale, che nel nostro Paese presenta un quadro allarmante: aumentano le richieste di aiuto mentre le risorse per rendere efficace il percorso di cura e di assistenza del malato psichiatrico risultano essere sempre più scarse. Per quanto riguarda la schizofrenia, sono 245mila in Italia le persone che ne soffrono. È disturbo psichico che esordisce precocemente (tra i 15 e 35 anni), con sintomi complessi, difficilmente decodificabili per i non esperti quali i deliri e le allucinazioni le cui conseguenze possono avere importanti effetti sul progetto di vita della persona e sull’esistenza di chi le vive accanto. Dati di numerosi studi rilevano che il 47% dei pazienti affetti ha dovuto lasciare il lavoro e il 34% ha dovuto abbandonare gli studi.

Motore Sanità per fare il punto della situazione ha organizzato il “TAVOLO REGIONALE SCHIZOFRENIA: FOCUS VENETOcon il contributo incondizionato di ANGELINI PHARMA.

Su una popolazione residente in Italia di circa 61 milioni di persone la schizofrenia ha una prevalenza dello 0,5% e una incidenza, insieme alla psicosi, che va da 4 a 72 per 100mila persone annui. Le persone con schizofrenia sono 303.913 di cui solo il 70% dei pazienti risulta incluso in un ciclo di cura. Dai dati del 2015, risultavano trattati 175.382 pazienti (82,4%), non trattati 37.357 pari al 17,6%; sono trattati con antipsicotici 151.790 pazienti, pari a 86,5% di cui con una terapia 27.566 pazienti, pari al 40%, e con politerapia 60.716 pazienti, pari al 60%, gli altri farmaci rappresentano il 13,5% pari a 23.593 pazienti trattati. Oltre a questi pazienti, c’è un sommerso su cui ancora è importante lavorareI costi della schizofrenia in Italia, secondo i dati del Ministero della salute, sono pari a 2,7 miliardi di euro di cui 1,33 miliardi di euro sono i costi diretti (49,5%) e 1,37 miliardi di euro sono i costi indiretti 50,5%. Nei costi diretti il costo dei farmaci ha un impatto marginale, il più alto impatto è dato dalla residenzialità e dalla long term care; nei costi indiretti le pensioni di invalidità per malattie mentali rappresentano la seconda voce di spesa per l’INPS e la perdita di produttività del paziente è la parte prevalente dei costi della schizofrenia. 

La spesa per la salute mentale rappresenta il 3,49% del totale della spesa sanitaria, questo valore risulta nella prevalenza dei casi fortemente insufficiente, media nazionale che risulta ulteriormente essere stata messa in crisi dalla pandemia dalla mancanza di personale, sia medico che infermieristico, e anche dal fatto che sono state date alla Psichiatria altre competenze che in passato non aveva, come i disturbi dell’alimentazione che incidono in modo importante sulla gestione totale del paziente. Negli ultimi anni poi è aumentata la domanda di presa in carico della fascia giovanile e fino al pre-Covid c’era stato un raddoppiamento rispetto ai 4 anni precedenti del numero di ricoveri di adolescenti e minorenni in clinica psichiatrica. Nei primi mesi del 2020 si è inoltre registrato un aumento esponenziale della domanda di salute dai giovani

Mirella Ruggeri, Direttore UOC di Psichiatria Clinica presso l’AOUI di Verona e Professore Ordinario di Psichiatria presso l’Università di Verona, ha evidenziato che “oggi gli obiettivi prioritari sono diventati la recovery più ampia e precoce possibile delle persone con psicosi all’esordio o con alto rischio di psicosi; la riduzione dello stigma personale e sociale associato alla malattia, l’inclusione sociale di soggetti con psicosi all’esordio o ad alto rischio; garantire interventi specifici e appropriati, basati su evidenze scientifiche e implementati sviluppando una metodologia di lavoro, omogenea, mirata e coesa”.

Poi ha presentato i numeri della schizofrenia, le sue conseguenze e il problema del sommerso: “Pur non essendo il disturbo psichiatrico più frequente, i dati epidemiologici indicano che in Italia sono 245mila i malati di schizofrenia. Vivere con la schizofrenia può comportare la perdita dei ruoli sociali e delle aspirazioni dei pazienti e dei loro familiari. Dati di numerosi studi rilevano che il 47% dei pazienti affetti ha dovuto lasciare il lavoro e il 34% ha dovuto abbandonare gli studi. E se l’impatto sociale è così pesante sui malati, questo peso non potrà non traferirsi sui compiti di assistenza e i vissuti emotivi di quanti stanno loro intorno, i familiari in primis”.

“A dare speranza ai pazienti e ai familiari negli ultimi decenni – ha aggiunto Mirella Ruggeri – sono gli studi che si sono concentrati sulla individuazione precoce dell’esordio psicotico che è mirata ad ottimizzare il sistema di riconoscimento dei soggetti ad alto rischio e/o con esordio psicotico. Sempre più diffusa (anche se non sempre sufficiente) è diventata prassi la presa in carico integrata da parte dei servizi territoriali finalizzata ad una recovery clinica, personale e sociale più ampia possibile. Il Dipartimento di salute mentale, i distretti sanitari, i servizi sociali, il volontariato e il privato-sociale hanno contribuito a realizzare una rete di prossimità con i medici di medicina generale, centri adolescenza e scuole, per migliorare l’individuazione precoce e la presa in carico assistenziale”.

Giuseppe Imperadore, Responsabile della UOC di Psichiatria 1 dell’ULSS 9 Scaligera, ha evidenziato che “la psichiatria viene vista, anche dagli addetti ai lavori e dal mondo medico come una pratica molto aspecifica e quindi difficile da valutare: penso al tema della residenzialità o ai disturbi borderline di personalità, altro esempio di diagnosi specifica che richiede una organizzazione e una competenza che non può, anche qui, essere generalista. Quindi se aumentiamo la specificità dei nostri interventi e siamo in grado di spiegarla nei termini ovviamente corretti sia nell’ambito delle nostre sedi ma anche agli amministratori, penso che possiamo far capire meglio qual è la valenza di un’area come la psichiatria che è molto avanti rispetto ad altre aree della medicina (dal concetto di continuità ospedale-territorio alle dimissioni protette, alla individuazione dei pazienti sul territorio). Pertanto penso che dare più specificità alla psichiatria e renderla un’area più facilmente leggibile sia la strada che dobbiamo seguire”.

Il problema dello stigma è un problema enorme. “Riguarda non solo i pazienti ma anche l’area psichiatrica come viene vista all’interno degli ospedali generali o come viene vista anche all’interno delle situazioni sanitarie – ha aggiunto Giuseppe Imperadore -. Ancora adesso il paziente affetto da un disturbo psichiatrico può essere visto in maniera diversa anche da parte dei colleghi. Credo che lavorare sullo stigma vuol dire poter fare una reale psico-educazione a tutti, pazienti compresi, in maniera che si possa fin dall’inizio dare una immagine del nostro intervento che non è “farmaci sì” o “farmaci no” ma è una serie di interventi che, al pari di altre discipline della Medicina, si basano su evidenze disponibili in letteratura che vanno cambiate con il progredire delle conoscenze e che possono essere presentate con pari dignità rispetto a molti altri progetti di cura che fanno da molto tempo i nostri colleghi. Penso che su questo bisogna investire aspettando e sperando che l’investimento economico permetta di poter dare risorse e capillarità ai nostri interventi. Nonostante le difficoltà, nella regione Veneto si sono fatti dei passi in avanti soprattutto nel garantire una maggiore specificità degli interventi”.

Giorgio Pigato, Responsabile dell’UO del Servizio Psichiatrico presso la Clinica Psichiatrica dell’AOUP ha infine evidenziato: “Uno dei bisogni irrisolti che andrebbe gestito con maggior precisione è sicuramente l’assesment diagnostico, la possibilità di rivalutare la diagnosi e di ristadiare la malattia schizofrenica nel tempo, ma la specificità e la stadiazione può essere fatta anche quando i pazienti diventano resistenti per terapie inappropriate o perché semplicemente neurobiologicamente sono destinati a sviluppare resistenza. Queste sono due sotto-popolazioni di pazienti resistenti che andrebbero individuati più possibilmente in maniera precisa, con strumenti diagnostici che devono essere implementati nei servizi. Se il rilancio deve essere nell’immediato futuro anche sulla salute mentale visto i fondi che potranno arrivare, un modo per spendere bene queste risorse sarà quello di obbligarci, anche a livello formativo, a creare degli psichiatri che, fin dall’inizio, si pongano delle domande per come autovalutare anche l’esito degli interventi e l’esito delle loro diagnosi”.

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Trapianto di fegato, la terapia salvavita che passa dalla generosità.
I clinici e la politica: “Serve fare cultura sulla donazione e un referral precoce sul territorio”.

Le malattie croniche del fegato sono un’emergenza clinica e assistenziale sia a livello mondiale che nazionale. Nel caso di insufficienza epatica irreversibile il trapianto di fegato rappresenta l’opzione fondamentale salvavita. Nel percorso di cura di questi pazienti molte sono le fasi critiche: dal pre-trapianto, con attenta valutazione dell’idoneità a ricevere l’organo e inserimento in lista d’attesa; al trapianto stesso con il percorso di preparazione; alla fase post trapianto e follow-up, nella quale si monitora l’esito dell’intervento e lo stato di salute del paziente. Quest’ultima fase, che dura per tutta la vita per il paziente trapiantato, è importante perché richiede un approccio integrato ed un attento e continuo monitoraggio per la prevenzione del rischio. I nodi cruciali da affrontare sono pertanto: la necessità di sensibilizzare sulla donazione degli organi (un famigliare su tre dice no), di una rete più strutturata tra clinici e associazioni di pazienti, una rete del referral oncologico più solida e il riconoscimento dell’epatopatia nei confronti del quale anche il medico di medicina generale deve fare la sua parte.
Le cause della insufficienza epatica che porta al trapianto di fegato possono essere varie, come ad esempio le infezioni virali (Hcv/Hbu), abuso di alcol, Nash, malattie autoimmuni e malattie oncologiche. Nel 2019 i trapianti di fegato in Italia sono stati 1.302, con un aumento del 42% rispetto al 1999. I dati sulla sopravvivenza post-trapianto, che pongono l’Italia tra i primi posti in Europa, dimostrano che la rete trapianti sviluppata in Italia è molto efficace. Motore Sanità, in occasione dell’evento “Il percorso ad ostacoli del malato di fegato. Focus on Trapianto di fegato”, organizzato con la sponsorizzazione non condizionante di Alfasigma ed Intercept Pharmaceuticals, ha voluto proporre un confronto sulla riorganizzazione della rete trapianti di fegato, che possa consentire un accesso uniforme a tutti i cittadini e una successiva presa in carico efficace nella gestione delle fasi più critiche del percorso.
Ad aprire i lavori è stata Paola Binetti, Componente della XII Commissione Permanente (Igiene e Sanità) del Senato della Repubblica portando all’attenzione due temi cruciali: aumentare la cultura della donazione degli organi e potenziare la formazione del medico di medicina generale in funzione di una diagnosi precoce della malattia epatica.
“La cultura della donazione degli organi – ha spiegato la senatrice Binetti – è necessario cominciarla nelle scuole e dobbiamo anche trovare il linguaggio adatto per fare questo nel modo migliore. Quanto al medico di medicina generale l’obiettivo è continuare a sottolineare che spesso ancora oggi non è in grado di sospettare la presenza di una malattia epatica cronica. Per questo il tema della formazione del medico di medicina generale è fondamentale anche in funzione di una diagnosi precoce e per questo chiediamo al mondo sanitario di alzare il livello della sensibilizzazione alla formazione. A tale proposito, vorremmo che una parte dei fondi del PNRR vada alla medicina territoriale ma di pari passo con una positiva, concreta ed esigente elevazione della sua competenza professionale. Mi auguro che ci possa essere maggiore attenzione al territorio ma che questo non
comporti una distrazione da quello che è il sistema ospedaliero di alta specialità e che tutto questo contribuisca a migliorare davvero la qualità della sanità italiana”.
Ivan Gardini, Presidente EpaC, ex paziente sottoposto a trapianto di fegato per due volte, ha ammesso di aver usufruito di una sanità eccellente prima, durante e dopo il trapianto di fegato. Ha voluto sottolineare nel suo intervento il grande lavoro delle associazioni dei pazienti trapiantati che deve essere evidenziato di più e l’esigenza di un referral precoce. “Nel corso del tempo sono nate molte micro associazioni di pazienti trapiantati che si sono affiancate alla rete trapiantologica facendo un lavoro straordinario di accoglienza, di aiuto pratico per i pazienti e per le loro famiglie. Questa rete di associazioni rappresenta una grande risorsa divulgativa ma non viene utilizzata al 100% delle possibilità. Troppo spesso, infatti, vengono coinvolte solo in occasioni circoscritte. Si tratta, invece, di una materia che ha bisogno di una informazione continuativa, per questo sarebbe opportuno parlare di donazione di organi nei percorsi scolastici, nei canali televisivi attraverso momenti educativi ad hoc, proprio per fare cultura della donazione e per recuperare le file dei donatori con l’aiuto di testimonial. Infine, è importante utilizzare una comunicazione più efficace sul tema utilizzando parole idonee”.
Circa l’esigenza di un referral precoce, Ivan Gardini ha spiegato: “Ai nostri centralini giungono storie di persone che vengono bloccate all’interno di un ospedale o di un pronto soccorso o di una medicina interna e non vengono inviati in tempo alla valutazione di un centro trapianti, questo non solo rischia di far perdere tempo ma di fare perdere la vita stessa al paziente, in special modo i pazienti con tumore del fegato”.
La parola è poi passata ai clinici che hanno evidenziato l’attuale fase in cui ci si trova a lavorare: della qualità della vita e, soprattutto, dell’ottimizzazione dell’accesso, al quale si aggiunge un cambio epidemiologico rilevante.
“Le consolidate indicazioni al trapianto si stanno riducendo e stanno crescendo due categorie di pazienti molto complesse, gli oncologici ma anche i pazienti metabolici che possono interessare fino al 20%-25% della popolazione, quindi se si parla di prevenzione i nostri paradigmi devono cambiare assolutamente perché tutto questo avrà un impatto sull’accesso alle cure e di conseguenza sull’accesso alle ipotesi di trapianto, un impatto sui criteri di selezione che stiamo già cambiando e dovremo continuare a rendere dinamici – ha spiegato Stefano Fagiuoli, Responsabile della Gastroenterologia e del Centro Trapianti dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo “e poi avrà un impatto clamoroso sulla gestione e la sorveglianza: avremo farmaci sia oncologici che per le malattie metaboliche certamente molto più efficaci, ma non abbiano ancora dei principi e dei corretti modelli di sorveglianza in popolazioni diverse da quelle che abbiamo seguito negli ultimi anni e dobbiamo chiederci se tutto questo può avere un impatto sul decorso. C’è poi un altro aspetto cruciale: l’accesso ai centri, la rete dei centri e il percorso di follow up. Ci dimentichiamo che le reti sono faticosissime da costruire, devono avere precise regole di comunicazione anche dal punto di vista contrattuale e questo non è quasi mai esistente; parliamo di PDTA in maniera estesissima ma dimentichiamo sempre l’aspetto più critico: che devono concludersi con precisi indicatori di processo e di outcome. Il PNRR ci dà un’opportunità clamorosa ma c’è una grande problema di informatizzazione, nessuno dei nostri ospedali è in grado di dialogare reciprocamente, ma sappiamo bene che tutto parte proprio dalla capacità di comunicare”.
Francesca Romana Ponziani, Ricercatore in Medicina Interna presso il Dipartimento di Medicina e Chirurgia Traslazionale all’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha messo in evidenza l’importanza di usare una comunicazione efficace sulla donazione degli organi e la necessità di un refferal strutturato ed efficace sul territorio.
“E’ importante fare emergere le diverse necessità dei pazienti con malattie ed età diverse, quindi con storie differenti, spesso lunghe altre volte brevi, e questo si associa a vissuti familiari che condizionano la disponibilità alla donazione (in un caso su tre i famigliari dicono no), quindi tanti sforzi in più devono essere fatti soprattutto sull’informazione divulgata attraverso i media e i social e l’informazione che viene fatta tra i medici stessi, in quanto le conoscenze in questo ambito si sviluppano molto velocemente quindi è essenziale l’aggiornamento. I nostri centri dovrebbero essere migliorati dal punto della capacità di ricettività ma anche i colleghi sul territorio dovrebbero essere messi nelle condizioni di poter fare un referral tempestivo in modo che il paziente possa essere seguito in maniera efficace”.


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La carica delle start up: sono il futuro dell’impresa italiana, serve investire di più per farle crescere

Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e sanità digitale, aziende multinazionali e start up, un connubio strategico in un momento storico come quello attuale e al centro della sanità italiana. Il tema è stato portato al tavolo di confronto dai massimi esperti presenti alla “MIDSUMMER SCHOOL 2022 – Disruptive technology e medicina di precisione”, organizzata da Motore Sanità con il contributo incondizionato di Technogenetics, Abbott, Becton Dickinson, Siemens Healthineers e Stago Italia.
Prima di presentare le diverse esperienze di startup e di giovanissime imprese, Andrea Bairati, Presidente AIRI – Associazione Italiana per la Ricerca Industriale, ha aperto i lavori fornendo il punto della situazione sull’attività delle startup in Italia. “In Italia sono state censite e registrate circa 15mila start up innovative, 170 incubatori, il 77% si occupano di servizi, il 18% nell’area manifatturiera, il 4% nel commercio e circa l’1% nella chimica/pharma. Nelle startup lavorano circa 60mila dipendenti. C’è molto fermento, energia competenza, ma si cresce poco e troppo lentamente. Queste imprese sono il futuro della demografia d’impresa, quindi dobbiamo farle crescere anche mettendole in contatto con le imprese di maggiori dimensioni, oltre che con la finanza. Sono limiti superabili: ridurre una politica troppo frammentata, stimolare competenze dei team manager non sempre adeguate, far crescere servizi professionali qualificati, investire risorse nella fase iniziale ad alto rischio e agire sulla comunicazione tra grandi e piccoli”.
Marco Knaflitz, Responsabile dell’Ingegneria Clinica presso il Politecnico di Torino, ha parlato di start up come “imprese giovani ad alto contenuto tecnologico ed innovativo, con forti potenzialità di crescita, però devono possedere delle caratteristiche ben precise per decollare e portare alla società il loro progetto per il quale si sono costituite, altrimenti rischiano di fallire nel loro intento”.
Questo il commento di Antonella Levante, Vice President di IQVIA, azienda globale di big data, clinici e sanitari: “Nel futuro le giovani generazioni faranno fatica a lavorare nelle grandi aziende e nelle pubbliche amministrazioni, quindi se non si trova un modello paese Italia che sfrutti le migliori energie che sono quelle che spesso dal Politecnico finiscono nelle startup, sarà una gravissima perdita. Questo significa però lavorare in patti chiari, trasparenti di partecipazione che non sono semplicemente punteggi nei consorzi che spesso sono difficili da portare a termine, pertanto bisogna guardare ad un modello che vada oltre il PNRR. La spinta vera verrà dalla capacità delle start up di trovare dei grandi partner che assicurino la solidità finanziaria e operativa per portare l’innovazione sul mercato”.
Ettore Simonelli, Senior Digital Health Direzione Prodotti Sanità Engineering ha aggiunto: “Se dobbiamo garantire una medicina e una gestione del percorso di cura diversa per i nostri figli è necessario che ci sia una sinergia tra tutti i componenti”.
Alessandra Poggiani, Director of Administration Human Technopole, ha approfondito il tema dell’intelligenza artificiale. “Nell’ultimo decennio, il numero di dati sanitari e omici generati e archiviati è cresciuto in modo esponenziale e l’intelligenza artificiale sta diventando fondamentale per estrarre informazioni da questa enorme mole di dati, trovare schemi, costruire modelli predittivi ed eseguire simulazioni. L’intelligenza artificiale fornisce infatti una serie di potenti strumenti per gestire la complessità dei sistemi biologici, identificando regolarità nascoste e segnali predittivi. Modelli di deep learning sono già applicati per l’elaborazione di sequenze di Dna, immagini di microscopia e strutture 3D delle proteine, ma nel prossimo futuro saremo in grado di costruire modelli di sistemi biologici ancora più complessi e su larga scala, basandosi sui dati di cellule e tessuti dei singoli pazienti. In prospettiva, grazie alla capacità di “simulare” in-silico gli esperimenti, sarà possibile consentire una validazione delle ipotesi molto più rapida: l’intelligenza artificiale guiderà la progettazione sperimentale, ma soprattutto consentirà di tarare sempre più le cure mediche sulle specifiche esigenze del singolo paziente”.
Giuseppe Anzelmo ha portato l’esperienza di Grifo Multimedia, piccola/media impresa, che si occupa da sempre di digital learning e da una decina di anni è approdata al gioco digitale per la salute in generale con alcune applicazioni particolarmente interessanti sulla riabilitazione. “Forti della nostra esperienza, abbiamo generato la piattaforma Game4Health che, grazie alla filosofia del serius game, tende a motivare e coinvolgere in maniera molto più pro-attiva le persone con malattie croniche sottoposte a riabilitazione. L’approccio è basato sul gioco, quindi è intuitivo e universale. L’obiettivo è quello di migliorare le performance delle terapie utilizzando giochi seri per incrementare l’engagement della persona, supportare l’erogazione di esercizi personalizzati e aiutare le famiglie e i professionisti della salute nella gestione dell’assistenza”.
La piattaforma Game4Health è dotata di sessioni di gioco che si possono fare in clinica o presso le strutture sanitarie e sessioni che si possono scaricare a casa. E in più ha tre app: Tako Doyo, nata per consentire ai piccoli pazienti di gestire il diabete; IamHero per aiutare giovani pazienti con deficit di attenzione e apprendimento (Adhd) a migliorare le proprie skill cognitivo-comportamentali; Motoria, l’app sulla tele-riabilitazione di pazienti affetti da scompenso cardiaco cronico, Bpco e parkinson (ogni patologia ha esercizi specifici di potenziamento, rispettivamente forza fisica, potenziamento dei muscoli che sostengono la respirazione, processi fisici e cognitivi tramite il ballo).
Presente anche Human Technopole, il nuovo istituto italiano di ricerca per le scienze della vita che contribuisce a stimolare e incrementare gli investimenti pubblici e privati nella ricerca. La ricerca dell’istituto è basata su cinque centri di ricerca interdisciplinari: genomica, neurogenomica, biologia strutturale, biologia computazionale e Health data science.
Anche Pharmaprime era presente: la startup italiana nata nel 2016 per facilitare e supportare la vita quotidiana di pazienti di ogni tipologia e fascia d’età, ovunque si trovino. Gli obiettivi: reperire e consegnare nel più breve tempo possibile medicinali e prodotti farmaceutici, sostenere ed assicurare l’accesso alle cure e l’aderenza al piano terapeutico, garantire ed implementare il benessere e la salute di chiunque, ovunque si trovi.
M2TEST è invece una startup nata con l’obiettivo di migliorare la vita delle persone attraverso la prevenzione dell’osteoporosi, mettendo a punto Bes Test, un test per la valutazione della qualità della struttura ossea utile non solo al momento della diagnosi ma anche nel monitoraggio della malattia.
Eureka InfoMed è un’azienda altamente specializzata nei servizi informativi per le aziende farmaceutiche: medical information e farmacovigilanza. La sua missione è quella di garantire una sicurezza nell’uso dei farmaci e assicurare una comunicazione scientifica puntale e precisa tra le aziende e gli utilizzatori. Collabora con l’Università di Studi di Genova.
L’Associazione Chimica Farmaceutica Lombarda tra titolari di Farmacia, 163 anni di storia, ha evidenziato che i progetti di piccole/medie aziende e start up possono tenere conto delle farmacie per essere sviluppati. “Siamo sopravvissuti, abbiamo sorpassato le pandemia che ci hanno reso più forti, ci siamo adeguati alla tecnologia, pertanto credo che nello spirito di collaborazione che è stato presentato nei precedenti interventi, penso che le farmacie debbano e possano esserci, che i progetti di piccole/medie aziende e start up possono tenere conto delle farmacie per essere messe a terra” ha detto Dario Castelli, Vicepresidente rurale Associazione Chimica Farmaceutica Lombarda tra titolari di Farmacia
Ha chiuso la tavola di confronto Alessandro Ferri, Presidente Advice Pharma, nata come start up all’interno dell’incubatore impresa del Politecnico di Milano per sviluppare software per la ricerca clinica e oggi società di sviluppo software che si è specializzata nella gestione dei trial clinici e di sviluppo di terapie digitali. “Attraverso le competenze si possono ottimizzare le risorse dedicate all’innovazione, spero che il Pnrr oltre a premiare le idee premi anche le competenze”.


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